10 ottobre 2007

Torni dall'Africa e...


Ho deciso dopo settimane dal mio rientro dall’Africa, di scrivere qualcosa di questa esperienza, ho urgenza di farlo, come se avessi paura che l’emozioni che provo e che sento in questo momento mi scivolassero via, ma da dove cominciare? Sono tante le cose viste, le persone incontrate e il luoghi impressi nella mia mente e nel mio cuore, ma ce n’è uno in particolare, uno che faticherò a dimenticare, uno sopra tutti Korogocho.
Attenzione, ho amato tutti i posti visti in Kenya, ho un particolare affetto per tutte le persone e i bambini incontrati a Bomet e per i bambini incontrati nelle scuole di Nairobi, ma quello che ho vissuto a Korogocho è qualcosa che prima della mia partenza non avrei immaginato di vivere.
Innanzitutto, mi piacerebbe spiegare dove siamo stati, perché quando si sente parlare di Kenya, spesso, e me ne sono accorta tornando, si pensa ai Safari, ai leoni, alle tigri, alle zebre e alle giraffe, beh è vero la natura è travolgente, ma il Kenya non è solo questo.
Innanzitutto occorre dire che gran parte della nostra missione l’abbiamo passata a Nairobi, una delle più grandi città dell’Africa e soprattutto la capitale del Kenya.
A Nairobi ci sono 4 milioni di abitanti, 2,5 milioni dei quali vivono in baraccopoli, che occupano meno del 5% del territorio urbano, terreno che è di proprietà del comune e dello Stato. Circa l'80% di loro paga l'affitto ai proprietari delle baracche, speculatori che lucrano sulla pelle dei poveri.
Secondo i dati di UN HABITAT , l'Agenzia delle Nazioni Unite che studia gli insediamenti urbani e rurali, a Nairobi esistono 199 baraccopoli, alcune immense come Kibera con oltre 800 mila abitanti e altre più piccole con qualche centinaio di persone, ma purtroppo in espansione.
Com’è facile immaginare, l’emarginazione, la povertà, la fame, il freddo, il degrado e l’ignoranza portano queste persone a vivere ai limiti dell’umana sopportazione, portano a vivere ogni tipo di rapporto con violenza, la vita umana perde d’importanza proprio perché la morte purtroppo è all’ordine del giorno.
Korogocho si estende su un'area di 1,5 kmq e dove ad oggi vivono 100-120 mila persone stipate in baracche di fango e lamiera.
Le baracche sono attaccate le une alle altre, divise soltanto da viottoli angusti che sono , allo stesso tempo, fogna e scolo. Le strade sono impraticabili durante le piogge o estremamente polverose negli altri periodi dell'anno. L'immondizia viene accumulata a lato delle strade, dove spesso viene direttamente bruciata.
Korogocho sorge proprio nei pressi della discarica di Dandora, perché i ricchi i rifiuti non li bruciano, i ricchi li raccolgono da più di trent’anni nello stesso punto, nella stessa discarica, per darvi un senso delle dimensioni, prendete la montagnetta di San Siro e immaginatela coperta di pattumiera. La discarica, costituisce una risorsa preziosa per i numerosi scavengers (cercatori) che sopravvivono, grazie alla loro attività di recupero e riciclaggio dei rifiuti, ma è anche oggetto di grandi interessi economici, delle poche persone che sfruttano la debolezza di questi disperati
Molti giovani e bambini, orfani e poveri, affollano lo slum senza alcuna speranza per il futuro. Sono facili preda di droga, prostituzione e alcolismo. Moltissimi bambini di strada, per sfuggire ai morsi della fame si “ stordiscono ” sniffando colla.
Entrare a Korogocho non è così facile, bisogna conoscere, qualcuno, bisogna avere gli agganci giusti, perché ogni giorno, può essere un giorno buono o un giorno pessimo, i furti sono all’ordine del giorno e la criminalità regna sovrana, ricordo che la sera prima eravamo tutti molto emozionati, eravamo agitati, sapevamo che sarebbe stata dura, ma eravamo felici di poter affrontare anche questa esperienza insieme.
Ci avevano preparato, ci avevano avvisato ed eravamo pronti a tutto, sapevamo che forse non saremo neanche potuti scendere dal “Matatu” , sapevamo che dovevamo ascoltare quello che succedeva intorno a noi, sapevamo che dovevamo ascoltarci, sapevamo che l’accoglienza poteva essere buona, oppure pessima, sapevamo che dovevamo entrare in punta di piedi e con l’atteggiamento del “io sono qui, se mi vuoi rimango, ma se non mi vuoi, me ne vado”.
Ho ancora negli occhi l’ingresso del Matatu a Korogocho, l’ingresso è graduale, le case piano piano diventano, scatole di latta, le strade si restringono, l’asfalto lascia il posto alla polvere, alle buche e all’immondizia, credo che i viottoli percorribili dalle auto siano due.
Iniziamo a percorrere uno di questi, quello che ad occhio sembra il principale, intorno a noi incominciano a accalcarsi ragazzini dagli abiti lisi e le scarpe rotte, alcuni di loro hanno nelle maniche del maglione un barattolo di colla che tengono sempre attaccato al naso, si attaccano al Matatu, ma non mollano mai il loro barattolo. Ci sorridono e noi sorridiamo loro, non sembrano mal intenzionati, ma l’autista ci consiglia comunque di chiudere i finestrini.
Ai margini della strada, sfilano una serie di piccole baracche di legno, i loro negozi, c’è chi vende scarpe, chi vende frutta e verdura, c’è il barbiere, il parrucchiere per donna e c’è chi vende ciò che ha raccolto nella discarica.
La gente ci guarda, e ride di noi, il naso rosso è un mezzo di comunicazione incredibile e come se tu trasmettessi il messaggio “guardami, mi prendo in giro con questo artificio sulla faccia, guarda i miei vestiti sono come i tuoi, io non sto su un piedistallo, io sono come te” e funziona, funziona sempre.
Arriviamo all’interno di una struttura che simile ad un oratorio, i ragazzini ci hanno seguito fino a qui, sono felici e pieni di entusiasmo, l’emozione tra di noi e palpabile, l’adrenalina sale, ci siamo, siamo dentro a Korogocho, ancora non ci possiamo credere.
Finalmente possiamo scendere dal Matatu, mi guardo intorno e alla nostra destra c’è la discarica e si sente, l’odore che ci avvolge e fortissimo, faccio fatica a respirare, mi chiedo come sia possibile che la gente viva qui.
Charles, ci dice ancora una volta di stare attenti, di camminare sempre vicini e di non allontanarci dal gruppo, usciamo per raggiungere la sede dei padri comboniani, i bambini fanno a gara per prenderci la mano, ci guardano, ci accarezzano, facciamo lo slalom tra le buche e gli scoli della fogna, ovunque c’è polvere, ci guardiamo intorno e bimbi scalzi sbucano da ogni anfratto delle baracche, con noi c’è Samuel, uno dei ragazzini di strada, ci prende sottobraccio, da una parte ci siamo noi e dall’altra il suo barattolo di colla.
Arriviamo nella sede dei padri comboniani, è un posto gradevole, tutti i muri sono disegnati con colori vivaci, gli unici colori che ricordo di Korogocho, il resto è polvere e sporcizia. Non siamo gli unici a voler parlare con padre Daniele, colui che ha preso il posto di Alex Zanotelli a Korogocho e quindi aspettiamo pazientementeil nostro turno, nel frattempo Samuel che entrato con noi, ci fa capire qual è la realtà qui, qual è la sua realtà, è avvolto dall’odore di colla, che ad ogni suo abbraccio ti stordisce, avete mai provato ad annusare da vicino il “Bostik”? Gli spieghiamo che arriviamo dall’Italia e lui ci chiede il costo del biglietto aereo “Quant’è, 80 dollari? Si Samuel 80 dollari! Come possiamo dire ad una persona che nel portafoglio ha 20 centesimi, che il biglietto noi l’abbiamo pagato 1000 volte tanto?Arriva il nostro turno e padre Daniele ci fa entrare, spieghiamo chi siamo e cosa facciamo, chiediamo se possiamo far vedere ai bambini il nostro spettacolo. Permesso accordato, una telefonata e lo spazio c’è, ci guardiamo, non ci possiamo credere, il sogno è diventato realtà, non solo siamo a Korogocho, ma siamo a Korogocho con il nostro piccolo spettacolo.
Il Boma Rescue è il posto designato, Padre Daniele ci indica la strada, è dall’altra parte della baraccopoli, siamo felici è l’occasione per fare una piccola parata e raccoglie più bambini possibile, ripercorriamo la strada fatta al contrario fino al nostro Matatu, dove prendiamo tutto ciò che ci servirà per la nostra performance, in verità non abbiamo molto, ci avevano consigliato di lasciare tutto in ostello ed in verità neanche nella migliore delle ipotesi avremmo pensato di poter portare il nostro spettacolo proprio li.
Attraversiamo i lunghi viottoli di fango e fogna, i bambini si accalcano intorno a noi gridando e cantando“how are you” “how are you”, siamo travolti da questa energia.
Il Boma Rescue, come gli altri all’interno di Korogocho, serve a dare ai ragazzi di strada una nuova possibilità, i ragazzi in questi centri, imparano a leggere e a scrivere, praticano sport, hanno la possibilità di vedere film e soprattutto hanno un pasto caldo tutti i giorni.
Lo spettacolo risulta un po’ improvvisato, non abbiamo la musica e così cantiamo noi, non abbiamo il materiale e così cerchiamo di fare come possiamo, non importa, facendo teatro ho imparato che spesso l’energia di chi sta in scena, basta a riempire i buchi, la voglia di esserci rende tutto incredibilmente magico, e poi abbiamo avuto, come l’impressione che ai bambini, non importasse vedere dei bravi clown, a loro bastava sapere che quello spettacolo era per loro.
Torniamo stroditi dall’emozione verso il Matatu , ogni clown ha tre, quattro bambini per braccio, anche Samuel è sempre con noi, ha seguito tutto lo spettacolo e si è divertito, gli regaliamo uno dei nostro Kazoo, un buon metodo per fargli dimenticare il suo barattolo di colla, almeno per qualche minuto.
Salutiamo saliamo sul nostro Matatu, abbiamo addosso l’odore di polvere e di immondizia, abbiamo negli occhi, il viso e i piedi scalzi dei bimbi, l’emozione ora sfocia in un grido e un abbraccio liberatorio, ci abbiamo creduto e ci siamo stati, ma soprattutto abbiamo esaudito il desiderio più grande di uno dei nostri compagni, portare il sorriso, almeno per qualche minuto, “agli ultimi degli ultimi” e non una volta sola, dopo qualche giorno a Korogocho noi ci siamo tornati e questa volta con la musica, con gli oggetti e con tutta la nostra voglia di fare.
Perché in questi momenti capisci quanto è importante il gruppo, perché in questi momenti capisci che sei circondato da persone splendide, perché in questi momenti capisci quanto vuoi bene a tutti i tuoi compagni di viaggio…grazie Alice, grazie Ale, grazie Dany, grazie Dario,grazie Elena, grazie Ettore, grazie Fede, grazie Lety, grazie Marco, grazie Mary, grazie Monica, grazie Rudy e soprattutto grazie Angelo, perché se Korogocho l’abbiamo amata, desiderata e vissuta e soprattutto merito tuo.

Metti una sera al buio

Sto parlando di quella speciale esperienza che è “Dialogo nel buio”.
Cos’è?!?Com'è?Cosa si fa!?Cosa succede?! Come si può descrivere l’ingresso in un mondo fatto di buio?Cosa si può raccontare di una mostra dove l’obiettivo è non vedere nulla?
Si descrive quanto è magico il nostro corpo, si descrive quanto sia speciale la nostra capacità di sopravvivenza.
A quante cose non prestiamo attenzione?Quante cose non “vediamo”, pur essendo dotati di vista?Quanti odori non sentiamo?Quante cose non tocchiamo perché tanto le possiamo vedere?Quanti piccoli suoni non sentiamo?
Cosa succede allora?Succede che, cambia la percezione e ti rendi conto che ti manca un elemento, ti rendi conto che se non vedi, hai bisogno di toccare, toccare quello che ti circonda, toccare chi ti circonda per sentirti rassicurato, hai bisogno di sentire gli odori, hai bisogno di capire che odore hanno le cose, il mare, il giardino oppure una casa, bisogna ascoltare, sentire davvero, riconoscere le voci di chi ci sta intorno, i rumori, i suoni e soprattutto il silenzio. Ed ecco che escono tutte quelle lezioni di teatro, le lezioni da clown, dove ho sempre sentito parlare di ascolto, che cos’è l’ascolto?Una mia insegnante diceva ”Chiudi gli occhi e immagina di essere un grande orecchio e ascolta, ascoltati, ascolta gli altri e ascolta quello che ti succede, ascolta non solo con le orecchie, ascolta con le mani, con le braccia, con le gambe, con il corpo e soprattutto ascolta con il cuore”.
Così ho fatto, sono entrata in quel lungo corridoio nero, sapendo che ero li non per vedere, ma per ascoltare, ascoltare me stessa.Come reagirò? Cosa succederà in me? Cosa succederà intorno a me?
Alla fine del corridoio, niente più luce, solo buio, buio pesto, ho sentito i miei occhi adattarsi a quell’oscurità, all’improvviso ecco una voce, la voce che ci avrebbe accompagnato per tutto il percorso, era la voce di Matteo, lui in quell’oscurità ci vive, in quell’oscurità è abituato a muoversi, per lui questo non è un posto diverso da tanti altri.
Matteo è gentile, sente che siamo disorientati, lo sa, ci sta vicino, ci prendere per mano, incominciamo a dire il nostro nome,e così in un secondo diventiamo suoni, non più immagini, i miei amici diventano delle voci, sentirò all’infinito quei nomi, tutte le volte che incrocerò qualcuno, tutte le volte in cui per sbaglio andrò addosso a qualcuno.Matteo incomincia a guidarci allora attraverso i vari luoghi, luoghi di vita reale, ricostruiti nei minimi dettagli, e allora iniziamo dal parco, poi è il momento della barca, della casa, della città ed infine del bar, un bar vero, con tanto di barista sudamericano.
Alla fine del percorso Matteo ci chiederà le nostre sensazioni, siamo senza parole, cerchiamo ancora di capire cosa ci è successo, come ci sentiamo e che cosa stiamo provando, non sappiamo tramutare tutto questo in semplici parole, ci avviciniamo all’uscita, ma quanto è passato, il tempo è volato, mi sembrano sia trascorsi 5 minuti e invece siamo li da più di un’ora.
Attraversiamo una serie di tende, il nostro occhio deve riabituarsi alla luce, così piano piano passiamo da buio totale, alla penombra, alla luce. Finalmente Matteo diventa er noi anche un’immagine, noi invece per lui noi rimaniamo solo delle voci, per lui non ci sono tende, non c’è la penombra e non c’è la luce, rimango senza parole ancora una volta. Matteo mi abbraccia e io lo ringrazio, è un abbraccio sincero, è un grazie per averci aperto il suo mondo, per averci mostrato com’è la sua vita, quali sono le difficoltà della sua condizione e quali emozioni allo stesso tempo si possono provare.
Usciamo da quest’avventura tutti un po’ pensierosi, è incredibile come questa esperienza ci abbia disorientato e allo stesso tempo abbia lasciato ad a tutti noi qualcosa su cui riflettere.Ringrazio i miei compagni di avventura: Dario, Arianna, Federica e Angela sono contenta di aver vissuto questa esperienza unica con loro e ringrazio soprattutto Matteo, una persona davvero, davvero speciale..

Occhi

Avete mai provato a guardare negli occhi un bambino?!?
Sembra una domanda banale, ma non è così, questo week-end sono stata in una casa famiglia a Cusano Milanino,
un posto incredibile, all'ingresso del quale sono stata sommersa da un turbinio di emozioni, sapevo cos'era quel posto,
sapevo che la maggior parte dei bambini che avrei trovato erano orfani e allora, mentre aspettavo che ci aprissero il cancello
ho guardato uno a uno i loro volti.
Ho incrociato i loro occhi e un brivido mi è corso lungo la schiena,c'era un no so che di malinconico in quegli occhi, c'era qualcosa di speciale in quegli occhi, che mi è entrato dritto dritto nel cuore.
Siamo entrati e subito ci siamo cambiati e vestiti da clown.
Chi sono questi individui, con questo strano naso sembravano chiedersi
e perchè hanno tutti questi colori?Qui le suore mica ce li hanno tutti questi colori!!!
E poi abbiamo iniziato a fare dei giochi, abbiamo iniziato a fare dei palloncini e siamo entrati subito in relazione con loro,
abbiamo cominciato a conquistare la loro fiducia e si sono fidati, ci hanno seguito nei nostri giochi e ci hanno aperto il loro mondo.Un mondo fatto di difficoltà relazionali, un mondo fatto di timidezze, un mondo fatto di paure.
Che meraviglia...se ci penso ora ancora mi vengono i brividi e poi quanti abbracci, quanti sorrisi e si io faccio il clown per quello, faccio il clown per vedere ridere i bimbi e il loro sorriso è qualcosa di speciale!!
Poi poi i più piccoli dovevano mangiare e allora sono andata a curiosare nella sala pranzo, lì ho visto una suora che dava da mangiare a due bimbi contemporaneamente, prima a uno e poi all'altro, senza prestare attenzione a nessuno dei due, mi sono offerta di aiutarla,e ho incominciato a dare da mangiare ad uno di questi bimbi, non lo posso descrivere il modo in cui questo bimbo mi guardava,dopo una diffidenza iniziale ha incominciato a fidarsi di me e mangiava stringendomi la mano, è stato magico..
Allora ho capito, abbiamo capito che in quel posto ci saremmo dovuti tornare e ci torneremo...
Questi bimbi hanno bisogno di un sorriso, se lo meritano... se lo meritano i loro occhi, questi bimbi meritano di sapere che c'è qualcuno che va li per loro, meritano di sapere che per qualcuno sono importanti....
Grazie ai miei compagni di avventura a cui voglio un bene infinito, siete dei clown speciali.....

Ansie da viaggio

...chi non ha mai sofferto di ansia da partenza??
Beh, io in quanto detentrice di tutte le ansie del mondo, ovviamente soffro anche di ansia da partenza, che non è un'ansia tutta sola, sta in buona compagnia di un'altra lunga serie di ansie.
Con ordine, prima arriva l'ansia da valigia "devo aver dimenticato qualcosa, ma cosa?", allora inizia il tour intorno alla casa (che, voglio dire, pensando a casa mia, fa anche abbastanza ridere), apertura di tutti gli armadi, armadietti, analisi minuziosa di tutte le mensole alla ricerca dell'ispirazione, di ciò che è fondamentale inserire in valigia, risultato: valigia da 18 kg per 3 giorni di vacanza. Ora, perché non si sa mai, e se dovessi dimenticare una cosa che mi potrebbe servire? Come faccio? E se dovesse fare freddo e non avessi il maglione? E se fa caldo e non ho la maglia a mezze maniche? E le scarpe? E se devo camminare? Se devo uscire? Meglio portarne più di un paio, non si sa mai.
E poi c'è il beauty, sebbene io non rientri nella classica categoria “figa di legno”, adoro tutto ciò che abbia un bel colore ed una gradevole profumazione; più che alla categoria “figa di legno”, forse appartengo alla categoria “infantilandia”. Quindi anche per il beauty, tutto risulta indispensabile e la sua preparazione è delicatissima; innanzi tutto c'è l'operazione “scelta dei prodotti”, seguita dall'operazione “lego”, ovvero l'incastro in preciso ordine di tutti i contenitori, boccette e barattoli. Completata la valigia, però l'ansia non passa, rimane sempre abbastanza costante e mi accompagnerà con alti e bassi per tutta la vacanza, alla fine della quale mi accorgerò di aver usato solo metà degli oggetti, dei prodotti e dei vestiti a mia disposizione.
La seconda ansia è l'ansia da "ma il biglietto sarà corretto?", e allora inizia lo screening, data, ora, mese, anno.. ok, tutto corretto, ricontrollo per sicurezza , ok tutto ok e ora il biglietto dove lo metto per non dimenticarlo? Direi di fianco alla valigia, no meglio in borsa, no meglio in valigia, no meglio in borsa, no meglio in valigia...risultato “dove caspiterina l'ho messo?, credevo fosse in borsa”.
E poi c'è il giorno della partenza ed ecco presentarsi il fantastico cocktail d'ansie; primo ingrediente “ansia da ritardo” o “ansia da perdita di aereo o treno”, se viaggi con qualcuno che non viene colpito da questa ansia, potresti tranquillamente rischiare un infarto o l'omicidio, a seconda dei casi. Il secondo ingrediente, varia a seconda del mezzo che scelgo di utilizzare: per il treno si chiama ansia da “ma sarà quello giusto?" e allora le orecchie si tendono per sentire se altri stanno nominando la località di destinazione, si tendono in attesa della voce amica della stazione che dice treno, binario e orario; se la combinazione è giusta allora forse l’ansia incomincia scemare. Forse, però. Nel caso, invece, che il mezzo di locomozione sia l’aereo allora l’ansia diventa un po’ più complessa, diventa ansia da “ma mi faranno imbarcare?”. D’altronde non è colpa mia se i controlli sono sempre più complessi, non è colpa mia se adesso all’imbarco, tutto è rigorosamente misurato: e la crema mani no, il gel no (ma chi si porta il gel in borsa mah!), le medicine no, i biglietti del tram no, l’agenda con cose scritte a mano no, le chiavi di casa no, i bancomat si, ma o un bancomat o una carta di credito, tanto non si capisce come mai, chi vuole passare con qualche arma contundente passa lo stesso.
Terzo ingrediente: “ansia da perdita di valigie”. Io devo capire per quale assurdo motivo, quando viaggio in aereo e imbarco le valigie, sono sempre l’ultima a cui le riconsegnano. Solitamente c’è l’effetto formica che fa catapultare tutti i passeggeri, più o meno in fila, e difficilmente in ordine, dall’aereo al nastro-trasportatore; c’è chi cerca il posto migliore, ma davvero neanche al cinema ho visto gente così precisa nella scelta del posto. Incomincia “l’estrazione dei bagagli”: bagaglio rosso con cuciture gialle sulla ruota di Roma, borsone super griffato sulla ruota di Napoli, trolley blu sulla ruota di Milano… e della mia valigia nulla. Incominciano a riproporsi gli stessi bagagli, borsone supergriffato, trolley blu, della mia non c’è ombra fino, almeno, al sedicesimo giro del borsone griffato e del bagaglio rosso con le cuciture gialle, quando “l’ansia da perdita della valigia” più che ansia, sta per diventare una certezza. Ed eccomi pronta, come un centometrista in attesa dello sparo, perché la raccolta del bagaglio è questione di attimi, perso quello o ti metti a rincorrerlo, o fingi indifferenza e aspetti la prossima estrazione (sperando che la valigia ci sia ancora!). “Altro giro, altro regalo”.
Quarto e ultimo ingrediente l’ansia da “ma si saranno ricordati di venirmi a prendere?”, però solitamente questa viene scongiurata da “messaggio al check in”; “messaggio all’imbarco”; “messaggio dalla scaletta” per quanto riguarda l’aereo e “messaggio all’uscita dalla stazione” e “messaggio per ogni fermata” per quanto riguarda il treno, non si sa mai, è sempre meglio avvisare no? Lo faccio per gli altri io.
Tenuto conto che adoro viaggiare e soprattutto adoro viaggiare in compagnia, cerco di moderare i miei scompensi, ovviamente per quello che posso e soprattutto per quelli che riesco a governare; alcuni ammetto che è impossibile, non ce la faccio, no davvero non ce la faccio, alcune ansie però ho imparato con il tempo a tenerle a bada e a volte diventano quasi inesistenti.
Ma oggi, ad un giorno dalla partenza per Palermo, la prima ansia è partita, ansia da valigia…superata?
Certo che no, sono sempre convinta di aver dimenticato qualcosa.
E domani arriveranno tutte le altre fantastiche ansie, ma chi se ne frega, si parte, questa è la cosa importante, beh certo se arrivo in orario al check in meglio no?????

Le piccole cose...

...E’ proprio vero che più tieni alle cose più hai paura di perderle… Siamo sempre alla ricerca del complicatissimo, siamo sempre alla ricerca del meglio che ci sia e a volte semplicemente, non ci accorgiamo, che il massimo lo abbiamo proprio sotto gli occhi. Perché ci guardiamo intorno, come alla ricerca di illusioni che non esistono? Perché non ci accorgiamo, che sono le cose semplici a renderci felici?Perché non ci accorgiamo che basta il sorriso di un amico a darci forza?Perché non ci accorgiamo che basta un abbraccio, per non sentirsi soli? Perché tendiamo a complicarci la vita? E’ forse vero che quello che abbiamo non ci basta mai?
C’è chi afferma che maggiore è la fatica che ci porta a conquistare qualcosa, maggiore è la soddisfazione che si prova ad averla. Credo che in parte sia è vero, lo abbiamo scritto nel dna, fa parte del nostro bagaglio culturale, dobbiamo lottare per ottenere le cose e anche se non c’è da lottare, la vita un pochino ce la dobbiamo complicare.. é la regola.
Perché ciò che riteniamo sia banale ci annoia, perché ciò che pensiamo sia accessibile diventa quasi sempre poco interessante, perché ciò che abbiamo a disposizione è quasi sempre visto come superfluo, ed eccoci allora alla ricerca della novità, dell’emozione, quella che fa correre i brividi lungo la schiena., eccoci ad inseguire amicizie innaturali e a cercare amori impossibili, eccoci alle prese con un’insoddisfazione sempre crescente.
E allora mi sono per l’ennesima volta, resa conto,di quanto troppo spesso diamo per scontate le persone che ci stanno accanto, sappiamo che sono li presenti e amorevoli, sappiamo che nel momento esatto in cui ne avremo bisogno, ci staranno ad ascoltare, l’attenzione che porgiamo a loro è limitata, sono una garanzia, una certezza, sono li e ci aspettano.
E se così non fosse?E se non ci stessero ad aspettare?E se una mattina ci svegliassimo e non fossero più li?
Ho vissuto per anni e vivo tuttora nella paura di perdere le persone che amo,mi è accaduto, mi accade e mi accadrà sempre…Accade che le perdi per troppo amore, accade che le perdi per disattenzione, accade che le perdi per mancanza di tempo, accade che le perdi per mancanza di comunicazione, accade che le perdi per una frase sbagliata e accade che le perdi perché qualcuno lassù ha voluto così.
Solo quel punto ti rendi conto dell’importanza che queste persone hanno nella tua vita, solo quando smetti di parlare con loro ti rendi conto di quante cose avevi da dire e solo quando smetti di vederle , ti accorgi di che importanza avesse un loro abbraccio.
Mi sono ripromessa allora che imparerò sempre di più a pesare le persone, le amicizie sincere e vere sono poche e spesso rischiamo di perderne alcune, per inseguirne altre, che non ci porteranno da nessuna parte .Mi sono ripromessa che darò più peso a quello che mi succede, mi sono ripromessa che darò più considerazione alle persone che mi stanno accanto, a quelle che mi vogliono bene, per quello che sono, con i miei pregi e miei difetti e a quelle a cui io voglio bene per come sono con il loro pregi e i loro difetti.
Mi sono ripromessa, che mi fermerò più spesso ad ascoltare chi mi sta intorno, dirò sempre ti voglio bene, mi ricorderò di chiedere sempre“come stai?” e non solo per cortesia, mi ricorderò sempre di quandto siano le piccole cose a rendere felici e mi ricorderò sempre di quanto sono fortunata.